Per l’attivista internauta, è sempre più frequente imbattersi in siti dove le tematiche animaliste sono inquadrate alla luce delle Sacre Scritture, con interpretazioni discordanti che danno luogo a polemiche spesso veementi tra i credenti della comunità ecclesiale. Se non fosse per la differente traslocazione dei messaggi, veicolati dagli attuali potenti mezzi di comunicazione di massa, sembrerebbe di tornare a vivere quella che probabilmente fu un’aspra polemica agli inizi delle fondazioni di comunità di cristiani. L’insistenza con cui Paolo di Tarso combatte certe forme di vita “pagane”, espressamente, il vegetarismo, e si dilunga su cosa e come dovrebbe mangiare il cristiano, induce a credere che l’alimentazione carnivora fosse combattuta da una parte consistente delle prime comunità cristiane. Il vegetarismo, o almeno forme similari di esso, per quel che se ne sa, è stata una viva tradizione di alcune sette contemporanee a Gesù, in particolare gli Esseni, che secondo alcune testimonianze non si cibavano di carne, ma solamente di pesce (non avendo i pesci una riproduzione sessuata, pensavano, erano da considerarsi più alghe o piante che animali) Sebbene sia difficile districarsi tra le molteplici sette, comunità, credenze relative alla Palestina del tempo, sembra che Giovanni Battista fosse un adepto, o quanto meno avesse subito una certa influenza dai movimenti “millenaristi” del tempo, che credevano imminente la venuta del Messia. C’era una diffusa credenza, all’epoca e non solo in Palestina, relativa alla fine del mondo e alla restaurazione del Regno di Dio, qualsiasi cosa significhi questo. Né Giovanni Battista né Gesù furono esclusi dal fermento ideologico della restaurazione imminente della giustizia divina. E questo non è senza importanza per la questione del vegetarismo delle comunità primitive, vegetarismo testimoniato da molti Padri della Chiesa, vegetariani anch’essi.

Ma procediamo con ordine. Il vegetarismo, sarebbe più corretto dire “veganismo”, fa la sua prima comparsa nel primo libro della Bibbia, la Genesi: dopo la creazione degli animali e degli uomini, Jahvé mostra gli alimenti che avrebbero dovuto mangiare:

“Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra nei quali vi è alito di vita, Io do in cibo ogni erba verde” (Genesi 1,29)

Dio spiega in modo chiarissimo ad Adamo ed Eva, si noti prima che il divieto di nutrirsi dall’Albero della Conoscenza fosse infranto dalla coppia, di come dovessero cibarsi di frutta e cereali. Non si fa nessuno accenno alla carne.

L’interpretazione ortodossa e antivegetariana insiste sul fatto che dall’assenza di prova non si può dedurre la prova dell’assenza; in particolare, Dio non dice espressamente di non mangiare carne, ma solo, negativamente, di mangiare frutta e cereali, dal che non si può dedurre che la coppia originaria fosse vegetariana. Magari, continuano, la carne viene lasciata nello sfondo, come un fatto naturale di cui non è necessario parlare, tanto è radicato nella cultura alimentare del tempo.

Ma non è così. Nella prosecuzione del discorso divino, si legge della straordinaria e, aggiungiamo noi, ultra-antispecista, descrizione della dieta degli animali; anche in questo caso, Dio parla di “verdura” – gli animali sono di fatto tutti erbivori nell’Eden – un non-senso naturale e socio-culturale se si pensa che gran parte degli animali sono strettamente carnivori, e che il modo di produzione delle tribù semi-nomadi che hanno scritto la Genesi è sostanzialmente d’allevamento, in zone aride dove tutto sembra possibile tranne un’alimentazione strettamente vegetariana, anche se solo per una pura sopravvivenza biologica. Questa duplice descrizione vegetariana, valida per tutto il vivente indipendentemente dalla specie, è chiaramente correlata simbolicamente ad un’età di perfezione in cui c’era un’armonia assoluta tra uomo animale e Dio, che “scendeva” dal cielo per farsi una passeggiata alla brezza del mattino).

La tesi secondo cui il carnivorismo sarebbe sottinteso perché “naturale” e “dato di fatto” non regge, anche alla luce del fatto che le religioni antiche avevano un esteso elenco di rituali legati all’alimentazione, che di fatto era sacra, e niente poteva essere lasciato al caso.

Ma c’è di più. Molto di più. Siamo al tempo primigenio quando non c’era nulla e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio parla e parlando crea, e viceversa in un chiasma identitario dalla straordinaria intuizione del linguaggio come portatore delle cose nella sfera dell’”essere”.

“Fiat lux et lux fuit, Deus vidit quod bonum erat” Genesi 1,3

Dio crea e nello stesso tempo imprime la positività ontologica del creato, nel caso specifico, del creato non vivente. Si noti bene: il non-vivente è intriso già del positivo, è un “bene sacrale” derivante dall’atto del Creatore. Il quarto e quinto giorno Dio crea gli animali, e si descrivono poeticamente i tre regni della Biosfera.

“Et vidit quod bonissimum erat ” Genesi 1,31

“Gli animali sono una cosa molto buona” e, senza ironizzare stupidamente sul doppio senso che richiama il libro di Marvin Harris, sembra plausibile che qui il “bonum” è da intendersi nel senso ontologico assoluto, non in relazione alla funzione-per-l’uomo. E perché mai? Beh…l’uomo non è stato ancora creato, e quando sarà creato, sarà vegetariano (vedi sopra). Il valore sostanziale del vivente non umano è chiaro, indubitabile tanto più che quando, dopo il peccato Dio concederà la carne all’uomo ormai irredimibile, le descrizioni dei rituali di purificazione saranno dettagliatissime: l’uomo dovrà uccidere la vita sacra che Dio ha benedetto.

In sintesi: il creato è sacro, ha un valore sostanziale e gli animali non sono fatti per l’uomo.

Alla luce di quanto detto sopra acquista un nuovo senso il famigerato passo dell’offerta di dominio sugli animali che Dio concede all’uomo subito dopo:

“riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra” Genesi 1,28

filologicamente la traduzione è scorretta, fatta con l’occhio di chi vive dopo la caduta del peccato. il termine ebraico è invece e significa letteralmente “custodire”. D’altra parte in un mondo dove l’uomo non si ciba di animali né di derivati, in cui è “nudo” come l’animale, sarebbe difficile inquadrare un qualsiasi tipo di dominio sul non umano. In realtà l’uomo deve custodire nel senso di dell’in-abitare rispettoso, lasciando-essere l’essere, abbellendolo e semmai dirigendo l’esuberanza rigogliosa della natura. E’ un prendersi-cura; che sia così lo si capisce subito dopo: l’uomo deve coltivare e custodire il giardino:

“Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse(Genesi 2,28)

In definitiva, abbiamo un quadro interpretativo coerente e rispettoso del testo, senza forzature che prevaricano il testo adattandolo, in modo interessato, al mondo così com’è dopo il peccato, dopo che la corruzione, la morte e la violenza sono entrate in esso a causa della violazione del divieto. L’uomo “perfetto”, nell’innocenza del suo essere-così-com’è, l’Adamo che prefigura l’uomo nuovo nei testi paolini, è, come l’animale, perfettamente congruente alla sua essenza, è come deve essere e in ciò consiste la sua felicità e mancanza di sofferenza. Nell’utopia della perfezione originaria, l’uomo esclude da sé qualsiasi prevaricazione nei confronti di tutto il vivente.

E così deve essere nella perfezione escatologica del Regno di Dio, dopo la venuta del Messia. I passi del profeta Isaia non lasciano dubbi e annunciano le realtà ultime di pace e di riconciliazione con tutte le creature:

“ Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme i loro piccoli, il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi».”. Isaia (11,6-8).

Ancora una volta la perfezione dopo la redenzione messianica è vista e descritta come armonia tra animale umano e non umano, a prescindere dalla distinzione della specie. In particolare la descrizione del bambino che gioca curioso con il serpente, pone l’accento sulla riacquistata innocenza “animale” dell’uomo redento.

“In quel giorno concluderò per loro un patto con le bestie selvatiche, con gli uccelli dell’aria e con i rettili della terra” Osea 2,20

E qui bisogna fare una parentesi. Nella concezione popolare e non della tradizione cristiana si insiste continuamente sull’immortalità dell’anima, che istituirebbe un’ontologia radicalmente differente dell’umano rispetto all’animale; una concezione assolutamente assente dal Vecchio Testamento, e problematica nel Nuovo. I profeti (Ezechiele, Daniele) parlano sempre e soltanto di resurrezione dei corpi, con l’implicita assunzione dell’unità psicofisica dell’uomo. Lo spirito vitale soffiato nelle narici è lo stesso di quello dell’animale:

“infatti la sorte degli uomini e delle bestie è la stessa…c’è UN SOLO SOFFIO VITALE PER TUTTI” (Qoulet 3,19).

Lo stesso Paolo di Tarso, che è l’unico nel Nuovo Testamento a screditare l’alimentazione carnivora, dice, in un passo famoso:

“La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.” Paolo, Lettera ai Romani 8,22-23

L’animale risorgerà nella gloria della “terra nuova e cieli nuovi”. Nelle antiche concezioni religiose, l’anima è niente di più del respiro che vivifica il corpo, come testimonia anche l’etimologia: ruach = respiro, soffio, vento; in sanscrito atman – l’anima individuale – assume lo stesso significato e la parola ricorda etimologicamente il greco athmos (“aria”, da cui “atmosfera”); d’altra parte anche la nostra “anima” è legata al termine “anemos” che in greco significa “vento”.

Nel Pentateuco addirittura l’uomo non risorgerà nemmeno come corpo (e così credevano ancora i Sadducei al tempo di Gesù). L’escatologia è sempre e soltanto “resurrezione dei corpi” sia umani che animali. Non esiste nessuna possibilità di sopravvivenza dell’anima a prescindere dal corpo, come testimonia la stessa morte e resurrezione di Cristo (il cui corpo non viene più ritrovato nel sepolcro). Solo Paolo di Tarso in alcuni passi sembra testimoniare l’immortalità dell’anima, ma sempre e comunque associata – magari nel futuro – alla resurrezione del corpo. Quando egli parlerà con i filosofi greci, metterà in primo piano questa differenza con le loro tradizioni religiose misteriche: non l’anima è immortale ma il corpo risorgerà dal nulla grazie al sacrificio di Cristo. I filosofi greci sorrideranno e lo manderanno via con disprezzo. D’altra parte non poteva che essere così in una religione dove l’essere, la realtà sono creati e santificati dall’Onnipotente, che imprime il suggello assiologico della “bontà” alle cose. La differenza fondamentale spesso portata avanti dai teologi tradizionalisti contro gli animalisti dell’immortalità dell’anima esclusiva dell’uomo e che lo differenzierebbe in modo sostanziale dall’animale non umane, non trova riscontro nella Bibbia, e, semmai, è un ibridazione medioevale con la filosofia platonico-aristotelica. Il corpo resuscita insieme al suo proprio ruach, come è vero che lo stesso Gesù è presente in modo trasfigurato ma ancora in qualche modo “materiale” nella Trinità, occorrenza spesso non sufficientemente vagliata con la dovuta attenzione nemmeno dalla teologia accademica (en passant, nel Pentateuco alla morte sopravvive un corpo spettrale che conduce un’esistenza misera nello Scheol, temuta da tutti).

Michele Palatella – Rovereto

Religione (etica)

 Animali e religioni

Entro subito nella questione aperta nel titolo per affermare che se volessimo porre a confronto i movimenti animalisti e le correnti religiose dovremmo pervenire alla conclusione che l’animalismo è una super-religione.

Tutte le religioni hanno i loro punti di forza in aspetti trascendenti, trasmessi fin dai tempi antichi attraverso libri o parole di iniziati. Anche dottrine religiose coniate in tempi moderni ripercorrono nella sostanza le stesse impostazioni di pensiero. In generale le religioni definiscono i principi che gli adepti devono accettare, seguire ed interiorizzare per potersi considerare parte del corpo religioso, cui hanno scelto di aderire.

L’animalismo ha un percorso opposto a quello delle religioni. A livello individuale viene interiorizzato un sentimento assolutamente personale che suscita una libera decisione di tutela e di rivalutazione del rapporto uomo-animale, secondo scelte autonome, svincolate da qualsiasi schema precostituito. Noi animalisti non abbiamo un dio-animale che condiziona i nostri comportamenti. E’ vero invece il contrario: difendiamo l’animale perché è debole ed incapace di reagire alla perversa razionalità con cui l’uomo sta aggredendo loro ed ogni altra manifestazione naturale. E’ la difesa degli indifesi il giusto modo per riequilibrare con sentimento di riconoscenza il potere che il progresso scientifico ha posto nelle nostre mani. Occorre tutelare l’ambiente ed ogni forma di vita, ad iniziare dai più sofferenti e più direttamente aggrediti nella loro essenza e nella loro coscienza: gli animali da allevamento. Non vi è, e non vi è stato alcuno salvo l’uomo capace di pianificare nascita, costrizione ed uccisione di altre specie. E non rischiando la propria incolumità in un aperto e leale confronto, ma attraverso la più subdola e vile pratica: la fecondità e la fecondazione forzata, la detenzione, la negazione di qualsiasi dignità e naturalità, fino alla macellazione. Pratiche odiose, che la massa delle genti ipocritamente affida a terzi privi di scrupoli, in modo da potersene ritenere sollevata da ogni responsabilità.

I capisaldi dell’etica della società umana non possono basarsi sulla elusione delle sue precise responsabilità naturali. A fronte delle nostre ormai illimitate capacità di incidere sull’assetto naturale del pianeta, con danni enormi, dovremmo molto seriamente interrogarci su quali doveri l’uomo deve saldamente mantenere nei confronti di quel contesto che le religioni abitualmente definiscono “creato” e che noi invece definiamo “trovato”. Credo innegabile che solo l’equilibrio dell’intero contesto consentirà la vita nostra e dei nostri discendenti. Si devono quindi porre precisi limiti alla nostra apatica indifferenza con cui stiamo facendo scempio di tutto quanto ci circonda. E lo dobbiamo fare ad ogni costo, perché in assenza subiremmo costi infinitamente maggiori in termini di disastri per le generazioni future. Nonostante si disponga di dettagliate informazioni sul pregiudizio arrecato, sulle precarie condizioni del pianeta e sulla atroce, ma quasi divertita, carneficina quotidiana di milioni animali, si continuano ad incentivare consumi e bisogni fittizi, con la speranza che in avvenire qualche benefica congiuntura risolva tutti i nostri attuali e futuri problemi. E’ come fare debito per giocare alla lotteria. A me pare che gli stessi criteri di sopraffazione e sfruttamento del più debole che oggi ci conducono ad immolare gli animali, stiano già ponendo i presupposti per immolare anche l’uomo sull’altare di un vuoto progresso economico senza fini e senza fine, salvo il collasso generale.

Anche con tutte le migliori disposizioni d’animo, la presenza dell’uomo, come di ogni altra cosa animata e non, non può essere neutra, cioè del tutto irrilevante per il sistema naturale. Quindi, considerata la preoccupante estensione quantitativa della nostra specie, giunta ormai prossima a 7.000.000.000 di individui, occorre imporsi adeguati criteri di comportamento affinché essa possa essere benefica o quanto meno perché arrechi danni limitati. L’intelligenza di cui spesso ci vantiamo, come nostra caratteristica peculiare in tutto l’Universo, avrebbe già dovuto da tempo richiamarci sulla necessità di cambiare rotta. Ciò non è avvenuto, forse perché non di intelligenza si tratta, ma di abilità manipolatoria delle risorse a disposizione, oppure, nella nostra specie l’istinto di sopraffazione è superiore anche a quello della sua sopravvivenza.

Cerchiamo un percorso di transizione che consenta al contesto naturale “trovato” di sopportare la presenza dell’uomo, fenomeno attualmente assai più distruttivo di ogni altro.

Occorre valutare la massa critica della nostra presenza: quanti siamo, quanti saremo, quanti potremo essere. L’assenza di controllo demografico è esiziale. Non può neppure essere pensato che un qualsiasi numero di miliardi di presenze umane sulla Terra sia compatibile incondizionatamente con la sopravvivenza della nostra stessa specie. Per assurdo è ritenuto da molti che maggiore è il numero di umani, maggiore è lo sviluppo ed il progresso della nostra esistenza. Chi lo afferma dovrebbe essere in grado di definire con precisione in base a quali risorse ciò dovrebbe avvenire. Invece viene affermato fideisticamente che il Dio ci assisterà, se ci comporteremo correttamente senza meritare punizioni, la cui entità di applicazione dipenderà poi dalla maggiore o minore benevolenza del sommo fattore. Oppure, pseudo-scientificamente viene affermato che le scoperte e le innovazioni hanno sempre consentito l’accrescimento e la sopravvivenza della nostra specie e che ciò continuerà anche in futuro.

Chi può razionalizzare tali affermazioni ne comprende a pieno la temerarietà antropocentrica e la mancanza di qualsiasi concreta affidabilità. Si considera incidentale che già moltitudini siano morte ed ancora muoiano per la mancanza di mezzi di sussistenza. Non si può certamente guardare al futuro con tali presupposti, tanto più che i disastri già compiuti iniziano a far avvertire globalmente i loro nefasti avvisi. Certamente più siamo, più consumiamo e quindi più produciamo, aumentando i vari indicatori economici quali il tanto osannato Pil (Prodotto Interno Lordo) di ogni Stato. Il che equivale a dire che accresciamo la distruzione del nostro ambiente ed acceleriamo la nostra fine, certamente ponendo gravi impedimenti anche al benessere delle prossime generazioni.

Questa è la nostra realtà. La omessa valutazione delle conseguenze dei nostri atti ci condanna ad una sorte pari a quella che noi quotidianamente imponiamo agli animali. Oggi distruggiamo gli animali perché sono i più deboli, e contemporaneamente creiamo le premesse per la distruzione anche di questa nostra specie, violenta ed arrogante, ma tutt’altro che invulnerabile. Con insensibilità ogni giorno vengono sacrificati milioni di animali: anche mentre state leggendo fiumi di sangue scorrono in ogni parte del pianeta, come ieri, come domani. Con altrettanta insensibilità stiamo perseguendo la nostra disfatta con comportamenti di irresponsabile consumismo. Bene, penserà qualcuno, pena meritata. Anche i dinosauri scomparirono forse per la loro eccessiva densità e la troppa voracità, ma noi possiamo e dobbiamo affrontare tempestivamente il problema e trovare valide alternative, non possiamo proseguire sulla via della cinica indifferenza, fino ad essere tutti vittime di noi stessi. In questa più sensata prospettiva, siamo certi che prevarrà la salvezza degli animali.

Purtroppo però, più si pensa alla attuale condizione del pianeta, più essa appare simile alla immagine del Titanic. Un errato senso di potere, l’allegria e l’opulenza dell’homo ludens si trasformeranno in un tragico tuffo verso l’annientamento di tutto, se non siamo in grado di provvedere a cambiare rotta, urgentemente, attraverso il completo riesame dei nostri limiti e dei nostri miti, religioni comprese. Le religioni sono infatti troppo rivolte al passato e mancanti di vero rispetto della natura, preoccupate solo di dettare regole divine che ad un esame critico risultano una affannosa rincorsa nella retroguardia del disordinato progresso dell’uomo, ed anche, vani tentativi di congelare le menti su fantasmi del passato, allo scopo di non rischiare la perdita di fedeli, ben sapendo che senza seguaci la loro inutilità sarebbe conclamata.

Diversamente l’animalista, nella sua individualità, mantiene le proprie prerogative di pensiero e di azione, indipendentemente dall’esistenza di un corpus normativo o di una struttura organizzata, conservando efficacia nella sua opera di protezione e di sensibilizzazione.

Infatti, il pensiero animalista è concreto e contestuale, libero da dogmi e da retaggi storici. Conscio che l’uomo, nonostante il suo progresso, è incapace di replicare anche un solo filo d’erba, l’animalista difende l’esistente, in particolare la vita, in quanto espressione della natura, indipendentemente dalla sua improbabile origine divina, e si oppone con assoluta convinzione e determinazione alla ingiusta sofferenza degli esseri senzienti, per dovere morale, ma sopra tutto per tutelare la dignità e l’autonomo diritto alla loro esistenza, certamente non originata per essere strumento nelle mani dell’uomo.

Ed ora un approfondimento su alcuni aspetti comuni nelle religioni monoteiste.

A prescindere dai meriti che in generale le religioni possano avere avuto, quali centri di conservazione e di tradizione culturale, non si può evitare di evidenziarne alcune incompatibilità di fondo con il pensiero animalista.

Alcune religioni indicano l’uomo come immagine e somiglianza della divinità, ma ne deprimono la libertà di pensiero e l’indipendenza di azione attraverso la struttura capillare e pervasiva delle loro regole. Questa mi sembra già una loro intrinseca potente contraddizione.

Ancora va osservato che viene ritualmente esaltata la meraviglia del creato, quale opera della divinità, quindi a mio avviso degna del massimo rispetto e conservazione. Invece si tollera e si condivide la sua distruzione. In questa seconda discrasia si colloca in particolare lo spregio degli animali, ridotti ad ingranaggio di un sempre più accelerato ritmo di distruzione per il soddisfacimento di bisogni effimeri e per l’accrescimento quantitativo della razza umana che, parallelamente, deprime i valori etici per raggiungere i più comodi standard di vita senza rimorsi.

Non credo che nell’animo umano vi siano sentimenti di generosità e di altruismo e quindi neppure che esso possa essere emanazione di volontà divina. La storia e l’attualità ci pongono davanti a eclatanti esempi di violenza che evidenziano l’assenza o l’insufficienza di remore interiori. Anche l’ordinario funzionamento di istituzioni prive di sostanziale giustizia denota un generale spirito di sopraffazione nella nostra specie, mentre le istituzioni orientate su veri principi filantropici e biocentrici sono spesso inefficaci.

La nostra Società ha interpretato nel peggiore dei modi il noto versetto della Genesi “… dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”. Anche nel dubbio che esso possa avere un proprio senso compiuto, la figura del “dominus” dovrebbe essere quella del padrone coscienzioso che preserva le risorse di cui dispone, mantenendo integro l’ambiente in cui le stesse possano continuare a vivere, ciascuna specie secondo le proprie necessità naturali. Altrimenti, quale motivo poteva esserci di creare (attraverso la divinità o la selezione naturale) queste diversità, se non un criterio di equilibrata complementarietà? Fino dall’origine sarebbero stati creati “massi di ciccia” senza ossi e senza scarti per alimentare copiosamente il dominatore. Gli attuali criteri di allevamento tendono a realizzare artificiosamente proprio masse informi di ciccia da deglutire nei vasti otri dei nostri stomaci insaziabili con la prescrizione e la benedizione delle religioni prevalenti, talune avallando anche orribili e dolorosissime pratiche di uccisione. La logica è sempre la stessa: la comodità del dominante e lo sfruttamento del sottomesso. Ma tutto ciò non ha niente in comune con il ruolo che ci fu assegnato, con l’ambiente che fu messo a disposizione e con la meravigliosa biodiversità che in parte ancora ci circonda e che rapidamente ed atrocemente stiamo distruggendo. La voracità della nostra specie ha sparigliato il gioco della natura e per questo sparirà. Non può sopravvivere nel tempo una specie che ha il mito dell’opulenza e che si moltiplica a dismisura incurante delle risorse limitate di cui dispone!

No Signori, nessuna speranza può essere riposta in un felice futuro della specie umana fino a quando l’etica nei confronti degli animali non sarà assunta a etica sociale, quale segno di maturità verso la natura e di rispetto della vita sotto qualsiasi forma si manifesti. Le religioni che, per mero proselitismo, accettano ed anche accentuano l’attuale miserevole condizione degli animali sono responsabili del futuro annientamento dell’umanità.

Dal passato un pensiero premonitore: “A forza di sterminare animali, si capì che anche sopprimere l’uomo non richiedeva un grande sforzo. (Erasmo da Rotterdam – umanista olandese, 1466/1469 – 1536)”

Molto meglio allontanarsi da quelle religioni che predicano l’antropocentrismo come discendenza divina, giustificando qualsiasi scempio, al solo scopo di mantenere il proprio potere temporale.

Al contrario, la coscienza antispecista apre una prospettiva di convivenza pacifica e di durevole conservazione della natura e dei viventi. La razza umana, depurata, potrà risultare benefica e dalla natura potrà trarre nuovi ideali per un futuro biocompatibile, nel quale ciascun individuo potrà esprimersi al meglio delle sue libertà naturali, in equilibrio con il mondo circostante e con il proprio spirito.

Marco Ciuti

Contattaci

Mandaci una mail, risponderemo in breve tempo.

Sending
Call Now Button
or

Log in with your credentials

or    

Forgot your details?

or

Create Account

diciotto − uno =