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di Ermanno Giudici | Lug 26, 2016 |                        IMAGE: FISH TANK BANK [PP] 

(pubblichiamo questo pezzo molto interessante e riflessivo, trovato su FB con la speranza che il suo autore non ci rimproveri …)

Pesce rosso ovvero la genesi del maltrattamento, l’origine dell’indifferenza verso la sofferenza muta, verso uno scorrere del tempo che porta al cervello sempre la stessa immagine, il vuoto della vasca.

Certo è un pesce, muto, poco comunicativo e sopratutto poco impegnativo, il cui benessere è sintetizzato sempre dagli stessi atavici concetti, che non si basano sull’etologia ma che nella loro semplicità non conoscono tempo: mangia, evacua, nuota e quindi vuol dire che sta bene.

Il pesce rosso è il primo degli animali che generalmente passano da una casa: costa pochissimo, richiede solo un vaso di vetro, acqua di rubinetto e un po’ di mangime, nei casi più disperati un po’ di zucchero e briciole se si vogliono ridurre le spese. Accontenta il bimbo, che probabilmente sarebbe stato più felice di poter condividere la sua vita con un cane, ma soprattutto accontenta i genitori che pensano soltanto a limitare l’impegno, il costo e le cure e magari si occupano poco del messaggio che trasmettono: l’indifferenza verso la vita, la non considerazione di un benessere minimo che dovrebbe essere garantito a un detenuto di qualsiasi specie. Nella complessa lotta fra i desideri dei bimbi e la “voglia” dei genitori esistono infatti delle scale, delle gerarchie fra gli animali, che crescono e  si modificano sino a quando il desiderio di avere un rapporto con un animale si trasforma da mera apprensione, da puro possesso creando e sviluppando empatia e una gerarchia di affetti, che è all’origine del dovuto a un essere vivente.

I pesci rossi hanno una vita sicuramente non felice, sempre reclusi in piccoli spazi e rappresentano un po’ gli ultimi degli animali domestici nella catena dei diritti: questa riflessione mi è tornata in mente leggendo un articolo in cui un giornalista ironizzava su una multa data a un locale che aveva un pesce rosso in una boccia. Molti Comuni lo vietano e la sofferenza da desolazione la capirebbe anche il più insensibile fra le persone con un minimo di attenzione, ma non il giornalista che era soltanto allibito per la sanzione.

Certo ci sono fatti più gravi, molto più gravi che non la vita di un pesce tenuto in una boccia di vetro, a consumare la sua misera esistenza di essere vivo a cui è stata tolta la possibilità di vivere. Un elenco di casi talmente lungo da non meritare nemmeno di cominciare a essere declinato. Ma non è questo il punto e ancora una volta ritorno sul concetto della sofferenza, sulla differenza sostanziale che non è quella fra essere vivi o morti, ma quella di come si trascorre la vita.

La vita non è fatta di pulsazioni cardiache, di respiri, di sangue che scorre nel torrente di vene e arterie o perlomeno non solo di quello: la vita è la possibilità di mettere in atto i comportamenti naturali ai quali ci ha condotto l’evoluzione, tanto per un uomo quanto per un pesce. In fondo la morte è sempre lì, aspetta tutti i vivi e come incontrarla è questione di fortuna: nel soffio impercettibile di un infarto o nella devastante spirale di una malattia che, come un parassita, si nutre di corpo e spirito fino a divorarti. In mezzo le mille sfumature di grigio che portano tutti gli esseri viventi allo stesso traguardo.

La morte non è nemmeno un destino, è una certezza, è l’ineluttabile. La vita è poliedrica, composita, costruita da eventi e da scelte fatte, da situazioni improvvise e anche da non decisioni, fuse in un caleidoscopio che nel mutare delle immagini e delle luci potrebbe rappresentare a buon titolo il nostro breve incedere sulla Terra, talvolta utile, talvolta inutile e altre volte semplicemente dannoso.

Ma la vita di un pesce rosso è come la morte, non regala nulla nemmeno a una creatura semplice e vessata, scorre sempre uguale, non insegna amore, non insegna rispetto e rende quasi divertente, affettuosa, la prigionia di un essere vivente. Così succede che dopo poco il pesce rosso muoia di stress, di cambi d’acqua alle più svariate temperature oppure a causa di un’alimentazione povera e sbagliata, di noia. Altre volte gli uomini si stufano di avere in casa quel simulacro di natura che fa solo tristezza e i pesci rossi finiscono nei fiumi o in posti meno nobili, come gli scarichi dei water.

Varrebbe la pena di fare un monumento al pesce rosso, al carassius auratus, che da secoli è stato commercializzato in centinaia di milioni di esemplari, più o meno mutanti, più o meno ibridati, al solo scopo di dare ai genitori la gioa di regalare un animale, senza che questo impegnasse troppo mani, mente e portafoglio. Per poi proseguire nell’evoluzione della cattività con le tartarughine verdi della Florida, che in realtà sono allevate a milioni ma in Louisiana, per portare, quasi inevitabilmente al criceto, talvolta alla cocorita e altre alla cavia peruviana.

Un mondo in cui i bambini non imparano nulla dei diritti degli esseri viventi, ma solo del possibile dominio che immotivatamente  è consentito esercitare sui più deboli.

 

    

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